Quando le urne sputano risultati deludenti, la Lega tira fuori l’unica arma che le è rimasta: la provocazione.

Stavolta è toccato di nuovo alla castrazione chimica, l’eterna ossessione di chi vuole scambiare la pulsione securitaria per giustizia. Un ordine del giorno presentato dal deputato leghista Igor Iezzi al decreto Sicurezza ripropone l’introduzione di una misura «su base volontaria» per i colpevoli di reati sessuali. Nulla di nuovo, se non l’occasione di tornare a far rumore mentre si cerca di coprire l’odore acre delle urne e la marginalizzazione crescente del Carroccio nella coalizione.

L’operazione è chirurgica: agitare uno spauracchio identitario, costringere gli alleati di Forza Italia a dibattere di boutade incostituzionali, mentre Fratelli d’Italia si gode la gestione del potere senza dover nemmeno esporsi. E intanto il Parlamento viene trascinato, per l’ennesima volta, in una discussione che appartiene al passato remoto del diritto penale.

Contro la costituzione e la scienza

L’introduzione della castrazione chimica, anche «su base volontaria», si scontra frontalmente con due articoli della Costituzione italiana. L’articolo 27 stabilisce che le pene «non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Somministrare un trattamento farmacologico con effetti fisici e psicologici profondi equivale, di fatto, a un’ingerenza corporea che non può essere considerata rieducativa. È una sanzione punitiva, mutilante, e inaccettabile in un ordinamento che si professa civile.

Ma è l’articolo 32 a rendere questa proposta una vera bomba istituzionale: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Anche nella versione presentata dalla Lega, che formalmente prevede la volontarietà, il contesto coercitivo della pena rende illusoria la libertà di scelta. In carcere, la nozione di consenso è strutturalmente viziata. E le conseguenze farmacologiche di lungo periodo (osteoporosi, depressione, disfunzioni metaboliche, perdita di massa muscolare, disturbi cognitivi) sono incompatibili con il principio della tutela della salute.

Dal punto di vista dell’efficacia, la castrazione chimica è un placebo per l’ansia collettiva, ma un fallimento per la prevenzione. La violenza sessuale non è solo frutto di iperattività sessuale: ha radici complesse, culturali, psicologiche, spesso intrecciate a dinamiche di potere e dominio. Ridurre tutto a un problema ormonale è una semplificazione da comizio, non da aula parlamentare.

I farmaci antiandrogeni, già utilizzati in alcune giurisdizioni estere, hanno effetti temporanei e reversibili. L’interruzione del trattamento porta al ripristino della libido. E i dati disponibili in letteratura non mostrano una significativa riduzione della recidiva se non accompagnati da terapie psicologiche integrate. Come ha dichiarato l’Avvocata Giulia Bongiorno in più occasioni, «non si può parlare di castrazione chimica se non come scelta volontaria all’interno di un percorso terapeutico, e non come pena».

Il solito trucco

È dagli anni Duemila che la Lega torna ciclicamente sul tema. Ogni volta che c’è un caso di cronaca e ogni volta che serve una bandiera da sventolare. Il trattamento è sempre lo stesso: una proposta mediaticamente forte, giuridicamente debole, eticamente discutibile. Ed è significativo che in questi anni nessun governo – neanche quelli a trazione leghista – sia mai riuscito a portare a termine l’introduzione della misura. Il motivo è semplice: la proposta è inapplicabile, incostituzionale e incompatibile con i trattati europei sui diritti fondamentali.

La stessa Bongiorno, pur interna a quell’area politica, ha avuto l’onestà di spiegare pubblicamente che l’unico margine per pensare a un simile trattamento è all’interno di una cornice medica volontaria. È la differenza tra diritto e vendetta. Tra giustizia e barbarie.

L’ultima tornata elettorale ha lasciato la Lega in una posizione irrilevante. Fratelli d’Italia domina, Forza Italia si barcamena e Salvini cerca ancora una narrativa per giustificare la sua permanenza in scena. Così la castrazione chimica diventa strumento per deviare il dibattito, collaudato espediente per attirare i riflettori e obbligare gli alleati a scegliere tra la complicità silente e l’imbarazzo.

Lo schema è noto: si rilancia una misura estrema, si chiede a Piantedosi e Forza Italia di «dire da che parte stanno», si alza il polverone. Nel frattempo si evita di parlare di inflazione, Pnrr, salari fermi e di infrastrutture e trasporti che competono a Salvini. È un trucco che funziona quando a disposizione c’è una stampa prona e l’argomento scalda i social.

Se il tema è la violenza sessuale – e deve esserlo – allora il dibattito andrebbe ricondotto alla realtà. Discutere di pene certe, di formazione specialistica per magistrati e forze dell’ordine, di sostegno concreto alle vittime, di percorsi rieducativi strutturati e misure culturali per disinnescare la cultura dello stupro. La castrazione chimica è solo uno sfogo da talk show: non protegge nessuno, non risolve niente, non educa.

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